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Quando PUOI essere Abbastanza

Quando PUOI essere Abbastanza

C’è qualcosa che si spezza dentro quando senti di aver dato tutto… e non basta.
Quando lo sforzo, la passione, le notti passate a studiare o a prepararti, vengono ignorate, mal interpretate, o addirittura derise. Quando, in aula, nel silenzio gelido dopo una domanda, ti accorgi che non stai giocando alla pari. Che non si tratta solo di merito, ma anche di altro. Di preferenze, simpatie, pregiudizi. Di quei meccanismi opachi che scorrono sottotraccia e che nessuno nomina, ma tutti sentono.

Durante gli anni scolastici e di università, ho visto compagni brillanti ricevere valutazioni mediocri solo perché “non allineati”.
In seguito, ho visto colleghe e colleghi  lavorare il doppio per ottenere la metà, solo perché portavano con sé un cognome sbagliato, un accento troppo marcato, un’identità non conforme, o semplicemente un modo diverso di stare al mondo.

E poi, la trappola peggiore: farti credere che il problema sei tu.
Che non sei adatto. Che non sei abbastanza.
Non abbastanza sveglio, non abbastanza colto, non abbastanza forte per stare lì.
Non ti dicono chiaramente: “Vai via”. No.
Ti fanno sentire fuori posto. Ti guardano con quell’aria che sa di “non sei tagliato per questo”. Ti parlano con quel tono che dice: “Altri ce la fanno, tu no”.
E così, giorno dopo giorno, quella voce si installa dentro di te. Diventa tua.
E finisci col pensare che forse hanno ragione loro.

L’università, la scuola, i luoghi di lavoro e formazione: lì dove si dovrebbe crescere

Sarebbero luoghi sacri, questi. Templi del sapere, della libertà di pensiero. Invece, troppo spesso, diventano laboratori di disuguaglianza.
Succede nei voti dati “a sensazione”, senza reale valutazione.
Succede nei commenti paternalisti rivolti alle donne, o nei sorrisi condiscendenti davanti a chi porta un nome straniero.
Succede quando una persona LGBTQIA+ viene ignorata, o corretta con un pronome sbagliato “per sbaglio”, ma quel “per sbaglio” si ripete troppe volte per essere davvero casuale.
Succede quando si dice a una persona con disabilità che “dovrebbe adeguarsi”, invece di cercare soluzioni che rispettino i suoi diritti.
E succede, soprattutto, quando si alimenta quella sensazione velenosa di non appartenenza.
Quella che ti dice che sei un impostore, anche se lavori più degli altri. Quella che ti fa sentire un errore dentro un sistema pensato per altri.

E l’effetto? È silenzioso, ma devastante.
L’autostima crolla. Il desiderio di imparare si spegne. Subentra la rabbia, o peggio, l’indifferenza.
Perché quando l’ingiustizia diventa sistemica, l’unica via di salvezza sembra quella di smettere di sentire.
Ed è lì che si perdono talenti, passioni, sogni. Si spengono persone intere.

Ma io non ci sto. E ne parlo.

Perché il silenzio è la complicità dei tempi moderni.
Perché ogni volta che qualcuno dice “ma è sempre stato così”, un frammento di possibilità muore.
Io credo che ci sia un altro modo. Che si possa – anzi si debba – costruire spazi di equità vera.
Dove la valutazione sia trasparente. Dove le differenze siano una ricchezza, non un ostacolo.
Dove non si accetti che qualcuno faccia sentire un’altra persona “fuori luogo”.
Dove, quando qualcuno osa dire “non sono abbastanza”, ci sia una comunità pronta a rispondere: “Lo sei. E se non lo sei ancora, diventarlo è un tuo diritto, non un privilegio concesso da chi sta sopra”.

Non sarà facile. Cambiare le regole del gioco quando altri le hanno scritte per proteggere sé stessi è un’impresa.
Ma ogni piccola azione, ogni voce che si alza, ogni volta che qualcuno dice: “Aspetta, questa cosa non è giusta”, è una crepa nel muro.

E le crepe, prima o poi, fanno crollare tutto.


A chi ha creduto di non essere abbastanza

Questo articolo l’ho scritto durante una notte insonne e lo dedico ad un’amica e collega cara che, più volte, ho visto demotivata e “persa”.
Una di quelle persone che il sistema ha provato a spegnere, a far sentire fuori posto, inadeguata, “non all’altezza”.
Che per anni ha pensato di dover faticare il doppio – se non il triplo – per poter semplicemente stare lì.
Che ha affrontato lo sguardo giudicante, le aspettative ingiuste, le domande che volevano farla inciampare.
Che ha resistito, con silenzio e dignità, mentre dentro covava il dubbio: “E se avessero ragione loro?”

E adesso – finalmente – la vedo fiorire.
Non perché sia cambiato il mondo attorno a lei, ma perché ha cambiato il modo in cui lo guarda.
Perché ha iniziato a fidarsi della sua forza, della sua preparazione, del suo modo unico e profondo di esserci.
E ogni volta che lo fa, ogni volta che sceglie di esserci davvero, diventa più potente. Più vera. Più libera.

A te, che oggi non chiedi più il permesso.
Che hai trovato la tua voce, e che con quella voce stai aprendo sentieri anche per chi viene dopo.

Non sei mai stata “non abbastanza”.
Erano loro a non sapere dove guardare.

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